Una riflessione critica sulla copertura dello sci olimpico moderno

Contributo alla SKYPE CONFERENCE organizzata da BENJAMIN HVALA il 6/1/2011 a LJUBLJANA
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Il mio arco di esperienza nella regia dello sci alpino e nordico va dal 1981 al 2007, dalla prima esperienza della discesa libera della Val Gardena allo slalom e al gigante delle Olimpiadi di Torino. E’ passato un quarto di secolo, che corrisponde – all’incirca – a metà della storia della televisione. Geograficamente, ho toccato quasi tutte le valli alpine del versante italiano con le gare di Coppa del Mondo, fino all’esperienza dei primi Mondiali della Valtellina dell’ ”85, alle Olimpiadi di Albertville del “92, ai due Mondiali italiani di fondo della Val di Fiemme del “91 e del 2003, fino alle Olimpiadi di Torino del 2006.

Cosa è cambiato in questi 25 anni? Molte cose (e moltissime in positivo) ma voglio esaminarne due: il ruolo della regia e del regista nel sistema produttivo e la standardizzazione del linguaggio di ripresa. A mio modo di vedere, l’una influisce sull’altra.

Ciò che all’inizio della mia esperienza era interpretazione e invenzione, incertezza ed errore del regista, oggi è competenza, pianificazione e standardizzazione del linguaggio di ripresa.

Dobbiamo fare due ovvie precisazioni.
La prima è che la tecnologia muove le forme di comunicazione e la tecnologia della televisione è molto cambiata in questo quarto di secolo.
La seconda è che l’organizzazione del grande evento reclama la razionalizzazione dei processi produttivi con ampie ricadute su quelli linguistici. Oggi si decide a tavolino che in ogni pista ci sarà il supporto di una sky cam, una polecam, un crane e, magari, una pista ne reclama due e un’altra nessuna. Ma, il linguaggio si è standardizzato in senso negativo, indipendentemente dalle tecnologie di ripresa e dal cambiamento dei processi produttivi.
Come altra faccia della medaglia, il secondo fattore della omogeneizzazione del linguaggio è stata l’evoluzione (fino all’estinzione) del ruolo del regista nelle forme in cui esso si era configurato nel primo quarto di secolo della televisione.
Sembrerebbe un processo inevitabile, che si ripropone costantemente nella storia. Nel Rinascimento Italiano la figura del grande architetto (Brunelleschi, Michelangelo) spegne l’artigianato individuale; allo stesso modo, la Rivoluzione Industriale dell’800 elimina il falegname artigiano e ne fa un operaio della catena di montaggio.
Oppure? Oppure ne fa il designer che inventa il mobile a tavolino.
Anche il vecchio regista diventa l’una o l’altra cosa.

Questo – a me sembra - è successo con la moderna organizzazione mondiale ed olimpica: la separazione tra l’ideazione a tavolino e la realizzazione sul campo.
La mia opinione è che non ci si debba opporre ai processi storici ma che da qui bisogna ripartire, facendosi alcune domande: il nostro è solo un prodotto industriale? Cosa abbiamo prodotto se non la standardizzazione “corretta” della ripresa?

Se la mia analisi tocca almeno un aspetto del problema, vado diritto alle possibili soluzioni.
Dobbiamo fare il modo che, ricco dell’esperienza industriale del grande evento, il nuovo regista lasci il tavolino e scenda di nuovo in pista, torni a sentirla sotto gli sci, provi l’emozione del salto, l’ebbrezza della velocità, la difficoltà delle traiettorie, se la faccia spiegare dal competente e la traduca (così come solo il regista sa fare) in posizione camera, supporto camera, inquadratura, movimento, stacco, fino alla messa in onda.
Dobbiamo abbandonare lo standard codificato, rischiare la rottura delle regole e ritornare alla ricerca sul campo. Dobbiamo ricomporre la dualità tra architetto e artigiano, artigiano e operaio, invenzione e serialità.
Dobbiamo dunque rifare i conti con il processo industriale, che non si deve negare, perché ci ha dato riprese migliori, ma che sembrano ormai prive di emozioni.
 

Giancarlo TOMASSETTI

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